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Safer Internet Day: tra dipendenza, cyberbullismo e adescamento online.

Il mondo a portata di mano, la finestra sul mondo, l’esposizione ai rischi, di quel mondo, nascosti dietro lo schermo: luoghi comuni sul binomio Internet&Social, con le loro luci e ombre, ve ne sono in quantità.
Ma, al di là del cliché e del già sentire dire, rimane il fatto che l’argomento della sicurezza, specie per i più giovani, è comunque attuale e, giorno dopo giorno, diventa sempre più pressante.
In occasione della Giornata Mondiale per la Sicurezza in Rete, che si celebra ogni 6 febbraio, istituita e promossa dalla Commissione Ue, la SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza), sottolinea l’importanza dell’uso consapevole di Internet da parte di bambini e adolescenti e del ruolo attivo e responsabile dei genitori.
Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, dice: “Occorre lavorare su tre principi fondamentali: dobbiamo partire dalla protection per garantire a bambini e adolescenti di essere al sicuro da impatti dannosi o discriminatori dei sistemi di intelligenza artificiale. Attraverso la provision i ragazzi andranno indirizzati verso contenuti appropriati, a partire dall’age verification. In ultimo, tramite la participation, le tecnologie andranno utilizzate nelle loro declinazioni positive”.
“Tutto questo è possibile se e solo se tutti i soggetti in campo prendano reale consapevolezza del valore di questa sfida, a partire dalle stesse aziende del digital, dalle Istituzioni e dalle authorities che sono chiamate a dare regole chiare e valide per tutti”. In altre parole si rendono necessarie soluzioni concrete, risposte operative, condivise e applicabili. “Risposte capaci di diventare una base di proposta utile a livello istituzionale a partire dal prossimo G7 per delineare un quadro di intervento comune a livello internazionale”, prosegue Caffo.
Non sarà però un cammino senza sfide e richiederà un approccio etico e responsabile da parte di tutti gli attori in gioco: “Un impegno collettivo e determinato in grado di integrare prevenzione e interventi basati sull’evidenza scientifica per implementare soluzioni che coinvolgano in primis i ragazzi affinché imparino a gestire il digitale in modo più responsabile”.
“In occasione della Giornata mondiale per la sicurezza in Rete, più di uno studio ha fatto suonare il campanello d’allarme sul rischio di dipendenza da videogiochi per oltre un ragazzo su dieci o sul cyberbullismo, che colpisce una fetta simile degli studenti”. A dirlo, in un’intervista alla Stampa, il ministro della Salute, Orazio Schillaci.
“Sono rimasto colpito dal dato riportato sabato dall’inchiesta sul mezzo milione di giovani e giovanissimi che nel nostro Paese è dipendente dai social network – spiega -Si tratta di un fenomeno che numerosi studi correlano all’aumento dei disturbi mentali sempre più diffusi, non solo nella nostra generazione Z, ma anche in quella Alpha. Ossia, tra i nati dopo il 2012. Non a caso definiti anche ‘screenagers’ per il tempo che trascorrono davanti agli schermi di pc, tablet e smartphone”.
Si tratta, secondo Schillaci, di “una nuova emergenza sanitaria, che si manifesta anche con la sempre più preoccupante diffusione dei disturbi alimentari, ai quali recenti studi attribuiscono oltre quattromila morti l’anno tra i ragazzi sotto i 24 anni. Dopo gli incidenti stradali è ormai questa la prima causa di morte tra i nostri giovani. Una strage silente, di fronte alla quale non possiamo restare indifferenti”.
Il ministro sottolinea però “che i social vanno ben utilizzati, non demonizzati. È infatti innegabile che queste piattaforme offrono ai giovani strumenti per creare, mantenere o sviluppare relazioni interpersonali anche nel mondo reale. Ci sono indagini che dimostrano come le forti amicizie adolescenziali possano essere rafforzate dall’interazione con i social media. Anche se questo finisce per fare più ricco chi è già ricco nel senso delle relazioni sociali”.
Si chiama “internet gaming disorder” la dipendenza patologica da internet, che siano giochi, video o social network, che coinvolge i più giovani al punto che nel 2019 l’Oms lo ha ufficialmente inserito all’interno della sezione inerente ai disturbi del comportamento relativi alle dipendenze.
Secondo i dati di un recente studio sulle “Dipendenze comportamentali nella Generazione Z”, realizzato dal Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità, emerge che nella popolazione scolastica tra 11 e 17 anni il rischio di disturbo da uso di videogiochi vede coinvolto ben il 12% degli studenti (circa 480mila). Il genere maschile è più colpito, con il 18% negli studenti delle secondarie di primo grado e il 13,8% negli studenti delle superiori; contro il 10,8% nelle scuole medie e il 5,5% nelle scuole superiori per le femmine. Rispetto all’età, la percentuale di rischio maggiore si rileva nelle scuole medie con il 14,3% dei ragazzi a rischio, mentre il dato scende al 10,2% alle superiori.
Da “Save the Children” arriva il dato secondo cui metà degli adolescenti passa online più di 5 ore al giorno, e  il 91,7% dei 14-17enni utilizza Internet quotidianamente. Che cosa fanno? Usano la messaggeria istantanea, attraverso WhatsApp, Messenger, Viber e altro (93%), guardano i video (84%), frequentano i social media (79%), videogiocano (72,4%). Un uso chiaramente eccessivo, che può avere conseguenze negative, a cominciare dalla dipendenza.
La “dipendenza da Internet” – riporta il Safer Internet Center italiano, promosso dal ministero della Cultura e del Merito – può essere una vera e propria sindrome: riguarda ragazzi e ragazze che non riescono a farne a meno e, privati della Rete, provano un forte disagio che non attenuano in nessun altro modo. Ma al di là della patologia, piuttosto rara o molto estrema, un abuso di Internet e delle tecnologie è sempre negativo.
I ragazzi, avvertono dal portale che intende dare per ogni argomento spiegazioni e consigli utili, potrebbero rinchiudersi in una “nicchia mediatica”, attuando una vera e propria fuga dalla realtà: con conseguenze sociali e psicologiche. Sostituire amici reali con amici virtuali, smettere di fare sport e passare sempre più tempo in solitudine davanti ai videogames.
“C’è chi dopo aver trascorso un tempo eccessivo online sente mal di testa, ha la vista sfocata, dolori al collo o semplicemente prova una gran fame! Altri segnali, invece, possono essere di tipo emotivo: ti arrabbi, sei nervoso o in ansia quando non puoi essere online o usare la tecnologia? O quando qualcuno ti distoglie da qualche tua attività online? Ti senti annoiato e irritato quando sei online?”, sono tra le prime domande che ci si deve porre per capire se si sta sviluppando una dipendenza di questo genere.
Poi vi sono Cyberbullismo e autoisolamento (hikikomori). Sono altri grandi temi legati a ciò da cui ci si deve difendere e saper maneggiare.
Save the Children evidenzia come nel 2023, rispetto al 2021, sembrano in crescita gli atti di cyberbullismo nei preadolescenti, in particolare tra gli 11 e i 13enni rispetto ai 15enni e le vittime sono più frequentemente le ragazze. A 15 anni si assiste negli anni considerati a un calo del fenomeno e a una riduzione del divario tra maschi e femmine, complici una maggiore capacità di difendersi dagli attacchi, anche di denunciarli, e una più concreta consapevolezza dei propri atti.
I comportamenti a rischio di dipendenza tecnologica, da social media o da gioco online, sono correlati a un aumento dell’ansia sociale, della depressione e dell’impulsività, a un rendimento scolastico scarso e un maggior rischio di sovrappeso o obesità. In Italia, le rilevazioni sugli adolescenti di 11, 13 e 15 anni, mostrano che il 13,5% del campione fa un uso problematico dei social media.
Sono soprattutto le ragazze a soffrirne e l’età più critica è quella dei 13 anni: tra le principali motivazioni dell’uso intensivo dei social media c’è quello di scappare da sentimenti negativi. Uno degli effetti legati alla dipendenza da internet è l’autoisolamento, che può raggiungere le forme più estreme nel fenomeno degli hikikomori, che letteralmente significa “stare in disparte”, un fenomeno che si manifesta soprattutto tra i 15 e i 17 anni.
In Italia –  nota ancora Save the Children – le rilevazioni sugli adolescenti di 11, 13 e 15 anni, mostrano che il 13,5% del campione fa un uso problematico dei social media. Sono soprattutto le ragazze a soffrirne e l’età più critica è quella dei 13 anni: tra le principali motivazioni dell’uso intensivo dei social media c’è quello di scappare da sentimenti negativi. Uno degli effetti legati alla dipendenza da internet è l’autoisolamento, che può raggiungere le forme più estreme nel fenomeno degli hikikomori, che letteralmente significa “stare in disparte”, un fenomeno che si manifesta soprattutto tra i 15 e i 17 anni.
Telefono Azzurro sta lavorando per divulgare e rendere maggiormente accessibile a tutti gli utenti, alle famiglie e gli insegnanti il Take It Down, il servizio gratuito sviluppato dal National Center for Missing and Exploited Children (NCMEC) in collaborazione con Meta, che “mette in sicurezza” le immagini sensibili o intime che bambini e adolescenti hanno magari ingenuamente diffuso sul web o sui social, consentendo di rintracciarle e cancellarle da tutte le piattaforme online pubbliche o non criptate che hanno deciso di aderire all’iniziativa. “La tecnologia corre, e noi non possiamo permetterci di rimanere indietro”, afferma Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro.
Sempre il portale promosso dal Ministero che, ricorda “L’adescamento online è un processo manipolativo e pianificato, interattivo e fluido, controllante e controllato, facilitato dalla mole di informazioni di sé che bambine/i e ragazze/i condividono in Rete e che costituiscono importanti punti di partenza per agganciare la vittima”.
È fondamentale – avvertono –  che venga tenuta traccia degli scambi intercorsi (es. salvare le conversazioni, fare degli screenshots) rivolgendosi il prima possibile alla Polizia Postale e delle Comunicazioni. In seguito alla tempestiva gestione degli aspetti strettamente inerenti la Rete e la denuncia, è altresì importante valutare la possibilità di rivolgersi ad un Servizio territoriale (es. Consultorio Familiare, Servizio di Neuropsichiatria Infantile, ecc.) in grado di fornire al minore anche un adeguato supporto di tipo psicologico o psichiatrico.
“Online può sembrare tutto perfetto, perché è facile presentarsi diversamente da ciò che si è. Se la persona con cui sei in contatto ha i tuoi stessi gusti, si interessa delle stesse cose, sembra molto gentile, ricorda che potrebbe anche fingere. Addirittura può farti credere di essere coinvolto/a in una relazione speciale con te. Ma, spesso, fa tutto parte dell’inganno”.
Gran parte della fidelizzazione e della dipendenza è anche provocata dall’intelligenza artificiale in grado di comandare gli algoritmi che tiene incollati allo schermo con contenuti confezionati in base ai nostri gusti e abitudini d’uso. Una dinamica questa che, peraltro, i ragazzi sottovalutano: 2 su 3 ritengono di avere la possibilità di controllarli o addirittura di influenzarli e aggirarli. Una battaglia però persa in partenza, che nasconde un vuoto di conoscenza che deve essere necessariamente colmato, per rendere tutti più consapevoli. In questo, il ruolo della scuola può essere fondamentale. Infatti, nel corso degli anni la cultura della sicurezza in ambiente digitale si è sviluppata soprattutto grazie ai docenti. Tra quanti hanno dichiarato di aver approfondito i pericoli dovuti a un uso corretto della Rete – si tratta di un confortante 75% – ben 7 su 10 hanno appreso le nozioni più utili soprattutto dai professori.   
L’AI o, meglio, il suo uso scorretto concorre poi alla creazione di dannose fake news, tema di cruciale attualità, che riguarda tutti i cittadini e che tocca un principio cardine delle nostre società democratiche: il diritto a una corretta informazione, sempre più difficile dato che la maggior parte delle persone orami si informa tramite i social. “Le fake news fanno quasi sempre leva sulle emozioni, sulle nostre paure o sui nostri pregiudizi (curiosità, razzismo, insicurezza), toccano temi di un certo interesse e legati all’attualità (salute, politica, celebrità, immigrazione etc.), usano toni drammatici o sensazionali, descrivono eventi straordinari.
“In questo scenario, la competenza più importante da possedere non è saper cercare e trovare le informazioni, ma saperle selezionare. È l’esperienza con cui studenti e insegnanti si confrontano ogni giorno. I motori di ricerca, ad esempio, propongono dei risultati in un dato ordine, ma è sufficiente? Ovviamente no, il problema è dunque ragionare sui criteri di selezione”, ricordano dal Safer Internet Center italiano.

SERGIO  DEMURU

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La Sardegna è ancora pigra e sedentaria. Solo il 26% dichiara di fare attività fisica.

Ancora troppo pigri e sedentari. In Sardegna solo il 26% delle persone dichiara di praticare regolarmente sport: una percentuale troppo bassa per poter vedere gli effetti benefici che l’attività fisica può svolgere. Per combattere questa tendenza già da qualche anno a Cagliari è partita una campagna: “Lo Sport è Prevenzione. Allenati Contro il Cancro’. E’ stata a suo tempo promossa dal CUS Cagliari insieme alla LILT (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori) Sardegna e gode del coordinamento scientifico dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) e del patrocinio dell’Assessorato della Sanità della Regione e dell’Università di Cagliari.
Lo sport come prevenzione. Secondo numerosi studi scientifici, il 40% dei tumori può essere evitato attraverso una costante attività fisica a tutte le età, e ciò vale anche per le molte altre malattie cardio-vascolari, metaboliche, neurodegenerative, osteo-articolari e muscolari. Per questo, a partire da fine febbraio 2018, nelle palestre e sui campi da gioco del Centro Sportivo Universitario del capoluogo sardo saranno organizzati speciali corsi di fitness e di educazione alla salute. Sono rivolti a giovani studenti, cittadini adulti, anziani, dipendenti dell’Università e anche, con corsi specifici, ai pazienti oncologici.
Corsi di fitness anzitutto. Attraverso un ciclo di brevi lezioni, un istruttore sportivo, coadiuvato da un oncologo, illustrerà ai partecipanti alcuni semplici esercizi fisici da eseguire costantemente per rimanere in forma e in salute. Inoltre, si spiegherà quali sono gli innumerevoli vantaggi per il benessere psico-fisico derivati dallo sport, anche grazie alla distribuzione di opuscoli appositamente realizzati.
In questo contesto vanno viste le visite gratuite e test. Infine, sempre presso il CUS, è possibile svolgere gratuitamente visite senologiche e il controllo dei nei per la prevenzione del melanoma. Negli ambulatori della LILT invece le donne possono eseguire il Pap test e la visita ginecologica. “E’ un modo innovativo per fare movimento e, allo stesso tempo, educazione.-ha affermato Marco Meloni, Presidente del CUS Cagliari-Con questa campagna siamo lieti di poter mettere a disposizione dell’intera cittadinanza le nostre strutture e i nostri insegnanti. A Cagliari il CUS vanta una grande tradizione e da oltre 70 anni tramandiamo la cultura dello sport e della salute. Negli ultimi anni abbiamo deciso di allargare il nostro raggio d’azione attraverso un sempre maggior coinvolgimento nelle nostre attività a tutta la popolazione, non solo quella universitaria. Si tratta di un progetto pilota che riteniamo possa essere esteso anche ad altri CUS. Il progetto di alleanza fra sport e medicina è reso possibile grazie ad un contributo incondizionato di Bristol-Meyers Squibb. L’attività fisica anche dopo un tumore è fondamentale. All’interno della campagna “Lo Sport è Prevenzione. Allenati Contro il Cancro” vengono promosse anche lezioni dedicate esclusivamente ai pazienti che sono riusciti a sconfiggere una neoplasia. In Sardegna 70.350 uomini e donne sono vivi dopo cinque anni dalla diagnosi della malattia e quindi possono essere considerati guariti. “L’attività fisica,-ha sottolineato Daniele Farci, dirigente dell’Oncologia Medica dell’Ospedale Businco di Cagliari e Consigliere Nazionale AIOM-può evitare la ricomparsa di neoplasie molto diffuse come quella al colon-retto, alla prostata o al seno. Inoltre contribuisce ad alleviare alcuni dei principali effetti collaterali provocati dalle cure anti-tumorali. Per questo è fortemente raccomandata e chi prende questa decisione deve sempre avvisare il proprio medico curante. Ogni malato presenta un quadro clinico specifico e quindi spetta solo all’oncologo stabilire se è possibile fare sport. Va infine concordato uno schema di allenamento che deve tenere conto di tutti i parametri medici della persona”.
SERGIO  DEMURU

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Come si fa a capire che una persona ha dipendenza.

Facciamo un po di chiarezza sulla dipendenza.
La dipendenza non ha a che fare con frequenza o intensità e nemmeno con specifici comportamenti. Tutto può diventare una dipendenza!
A partire dalle droghe, l’alcol, il cibo, il sesso, il gioco (d’azzardo o meno), il partner, lo shopping, il lavoro e così via.
Ci sono degli aspetti specifici in ogni dipendenza. Ma ci sono anche dinamiche trasversali che permettono di riconoscere su di sé o sull’altro di essere intrappolati in una dipendenza.
La dipendenza ha a che fare con l’ impossibilità di scelta, con meccanismi compulsivi e con un pattern complesso di emozioni, pensieri e azioni che ruotano intorno alla dinamica del controllo. In una permanente oscillazione tra illusori tentativi di mantenere e rafforzare il controllo e la inevitabile perdita dello stesso. Il controllo è vissuto come egosintonico ed è pressoché l’unica fonte di sicurezza. Mentre la perdita dello stesso genera angoscia e disperazione, senso di colpa e/o di vergogna e ad attiva una spirale compulsiva.
Il controllo, come strategia di gestione delle difficoltà attuali o remote mediante la repressione di pensieri ed emozioni (per loro natura incontrollabili), porta sempre all’incontro/scontro con la realtà in cui il controllo si rivela fallimentare.
Il controllo è la base del sintomo.
Come si fa a capire se ho una persona ha una dipendenza?
Il sintomo di dipendenza appare dunque un tentativo disfunzionale di autocura e di problem solving. Allo stesso tempo risponde all’inconscio bisogno di sedare pensieri ed emozioni scomode.
L’effetto acuto di sedazione emozionale genera anche un effetto cronico di alterazione della capacità di riconoscere e gestire pensieri ed emozioni complesse. Così quel sintomo di dipendenza diviene l’unico regolatore emotivo del soggetto diventando il fulcro del suo umore e del suo benessere. Va da sé che si attiva una polarizzazione cognitiva ovvero un pensiero ossessivo sull’oggetto di dipendenza.
Piano piano quella dipendenza finisce per fare piazza pulita di tutto il resto della vita, diventando il centro del proprio mondo emotivo, cognitivo e comportamentale.
La dipendenza è sempre degenerativa e distruttiva. È un tritacarne!
È impossibile risolvere da soli una dipendenza. Perché si è talmente invischiati e irretiti nelle sue perverse dinamiche che si finisce per mettere in campo strategie che involontariamente rafforzano la dipendenza.
È vero che ci può essere una remissione sintomatica ovvero si impara a non fare più uso di quell’oggetto di dipendenza ma, attenzione, il rischio è che senza che ce ne si renda conto si sta semplicemente spostando la dipendenza da un oggetto/comportamento ad un altro.
SERGIO  DEMURU

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Bibite gasate, occhio ai rischi ed alle conseguenze per lo stomaco

Si può tranquillamente asserire che il consumo di Coca-cola inizia anche nei bambini in tenera età e spesso anche in quantità eccessiva.
Detta bevanda contiene molte sostanze, alcune sconosciute, e tra questi gli zuccheri e la caffeina. Tutti conosciamo gli effetti negativi degli zuccheri per la salute del bambino. Ma cosa succede nel bambino che assume molta caffeina? La caffeina nella Coca Cola ha concentrazioni superiori a 100 mg per litro , con una concentrazione record di 118 mg per litro per la Coca Cola light. 
Il Consiglio europeo di informazione sull’alimentazione (EUFIC) precisa: “Nei bambini sensibili dosi massicce di caffeina possono causare effetti temporanei come eccitazione, irritabilità o ansia”. 
Da studi eseguiti in USA e Canada si deduce che i bambini potrebbero essere più sensibili degli adulti alla caffeina e per questo i ricercatori hanno fissato un limite di 2,5 mg per chilo di peso corporeo del bambino. La dose massima giornaliera consentita è quindi di 50 mg, contenuta in mezzo litro della bevanda, per un bambino di 6 anni che pesa intorno ai 20 Kg.
L’EUFIC stima che in un bambino di 10 anni le bevande gassate possano apportare fino a 160 mg di caffeina al giorno. E’ come prendere circa tre- quattro caffe’ al giorno dal momento che una tazzina di caffe’ espresso contiene circa 50 – 70 mg di caffeina. Le bevande gassate, oltre alla caffeina, contengono sostanze non sempre identificate o discutibili,alcune delle quali sono acide per i denti.Se si considera che i bambini consumano già caffeina attraverso i prodotti a base di cioccolato, si sconsiglia vivamente ai genitori di far assumere queste bibite ai figli, soprattutto se di età inferiore ai 4 anni.
In dosi massicce la caffeina produce un aumento della pressione arteriosa, del ritmo cardiaco e respiratorio. In casi estremi la caffeina provoca tremori, mal di testa, vertigini e disturbi digestivi quali crampi addominali, nausea e vomito. Un consumo persistente di caffeina può indurre una dipendenza che si manifesta con sintomi di astinenza, qualora se ne interrompi bruscamente il consumo, che si manifestano con mal di testa, irritabilità e spossatezza.
SERGIO  DEMURU
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La nictofobia è una paura morbosa e irrazionale del buio e della notte. Può diventare patologica come una dipendenza

La nictofobia (dal greco nyctos, “notte”, e phobos, “paura”), detta anche acluofobia, è una paura morbosa e irrazionale del buio e della notte. Si tratta di una fobia specifica, in quanto la paura è eccessiva, causa ansia e ha un impatto forte sulla vita quotidiana di chi che ne soffre.
È molto comune durante l’infanzia e in questo caso viene considerata una fase normale dello sviluppo, ma può colpire anche gli adulti.
La nictofobia porta a sperimentare angoscia e forte disagio quando ci si ritrova in ambienti oscuri.
Tuttavia, non è la paura dell’oscurità stessa, bensì un timore dei possibili pericoli che potrebbero nascondersi nel buio. Sarebbe la mancanza di stimoli visivi, e quindi l’impossibilità di vedere cosa c’è nell’ambiente, a far scattare il segnale di pericolo e a far crescere la paura.
Negli adulti la nictofobia ha molti dei sintomi delle altre fobie specifiche, in questo caso scatenati dallo stimolo dell’esposizione all’oscurità, o anche al semplice pensiero di una simile situazione.
I sintomi cognitivi includono forte paura quando si è al buio, ansia o panico, percezione di minaccia imminente, angoscia di potere perdere il controllo, intenso bisogno di sfuggire dalla situazione, distacco da sé e dalla realtà con la sensazione di essere “irreali”, sentirsi impotenti di fronte alla paura e credere di svenire o di morire.
La nictofobia può causare anche sintomi fisici legati all’ansia, come
1) aumento della frequenza cardiaca
2) respiro affannato
3) nausea
4) mal di testa
5) sudorazione eccessiva
6) vampate di calore o di freddo
7) senso di oppressione o dolore al petto
8) tremori
9) formicolii
10) vertigini
11) bocca secca.
Esistono anche dei sintomi comportamentali associati alla nictofobia.
Le persone fobiche mettono in atto strategie di evitamento. Nel caso della nictofobia, cercano di non esporsi al buio, ritardando l’ora di andare a dormire, non uscendo la sera e scappando dalle stanze buie.
Ogni volta che si ritrovano al buio diventano nervosi e irrequieti. Eseguono anche dei rituali comportamentali per scongiurare la paura, come controllare ripetutamente che le porte e le finestre siano chiuse o che non ci sia nessuno sotto il letto.
È comune che cerchino la rassicurazione di un familiare e che non vogliano rimanere da soli.
Inoltre, questa fobia è caratterizzata da disturbi del sonno e dall’impossibilità di dormire con le luci spente. L’associazione tra insonnia e nictofobia è stata stabilita da diverse evidenze scientifiche.
Secondo una ricerca condotta dall’Università canadese di Ryerson, il 50% dei soggetti insonni ha paura del buio.
Anche nei bambini, la nictofobia può causare insonnia. Secondo uno studio, un bambino che ha una gran paura del buio impiegherebbe quasi 1 ora in più per dormire rispetto a un bambino che non ne ha. Spesso scatena anche forti pianti notturni e incubi.
Per chi soffre di nictofobia, le conseguenze più temibili che potrebbero sorgere sono gli attacchi di panico e un’interferenza significativa con le attività quotidiane, professionali o con il rendimento scolastico.
Si stima che circa 1 bambino su 3, tra i 3 e i 6 anni di età, abbia paura del buio. Questa paura è normale, così come la diffusa credenza che le tenebre possano celare la presenza di mostri o fantasmi. Per via di questa paura, è comune che i bambini si sveglino e piangano nel mezzo della notte, che abbiano incubi e che non vogliano dormire da soli.
Di solito, la nictofobia nei bambini diminuisce progressivamente intorno ai 9 anni di età, per poi scomparire naturalmente.
In alcuni casi, la paura del buio persiste e si consolida come fobia specifica. Le statistiche indicano che 1 adulto su 10 soffrirebbe di nictofobia. Negli adulti, la paura del buio assume le caratteristiche di una vera e propria patologia fobica.
Spesso è originata da un periodo di stress o da esperienze traumatiche associate all’oscurità o alla notte che la persona ha vissuto durante l’infanzia o recentemente. In chi soffre di nictofobia, al buio, iniziano a prendere piede pensieri negativi e la persona si agita, presa dall’angoscia e dall’ansia.
Da un punto di vista evoluzionistico, la paura del buio è funzionale al monitoraggio della minaccia poiché molti predatori cacciano di notte.
Secondo alcuni esperti che seguono il pensiero di Freud, la nictofobia sarebbe una manifestazione del disturbo d’ansia di separazione. Avrebbe origine dall’infanzia, in particolare nel momento in cui il bambino cerca di trovare una certa autonomia e si stacca dai genitori.
Da un punto di vista psicopatologico, oggi si ipotizza che la fobia specifica per il buio abbia un’eziologia complessa, in cui giocano un ruolo fattori genetici, familiari, ambientali e di sviluppo.
Esistono diversi fattori di rischio che aumentano le probabilità che questa patologia si manifesti. Tra questi vi sono:
Un genitore ansioso: porta allo sviluppo della paura come risposta alle reazioni di ansia del genitore.
Un genitore iperprotettivo: porta allo sviluppo di una dipendenza dal genitore, ad avere una scarsa autostima e a sentirsi impotenti, e aumenta le probabilità di soffrire di ansia generalizzata in futuro.
Un evento stressante o un trauma, recente o verificatosi durante la crescita: aumenta le probabilità di sviluppare una fobia.
Esperienze negative associate al buio: momenti apparentemente non traumatici, come essere stato terrorizzato da un racconto di paura al buio o aver sentito delle grida di notte, possono venire registrati inconsciamente come traumi.
Il primo passo per affrontare la nictofobia è accettare di avere paura. La paura è un sentimento normale nell’essere umano e ha una funzione di campanello d’allarme per una possibile minaccia. Reprimere le nostre paure non è efficace. Piuttosto, dovremmo osservarle ed accettarle.
Per iniziare ad affrontare la paura del buio, si può provare a svolgere un’attività in penombra, per poi ripetere l’esperienza qualche giorno dopo in una stanza un po’ più oscura. A poco a poco il buio apparirà sempre meno minaccioso, e così, gradualmente, si familiarizzerà con l’oggetto di timore, il buio.
Durante questo lavoro interno di esposizione alla paura, è bene cercare di mantenere la mente più calma possibile, con tecniche di rilassamento, meditazioni, esercizi di respirazione e ascoltando musica rilassante. È sconsigliato vedere film o leggere libri che abbiano contenuti violenti.
Per aiutare i bambini ad allontanare la paura del buio, è importante non minimizzare o ridicolizzare la paura con frasi come “Sei grande per avere paura del buio”, ma neanche rendere troppo seria la questione.
Una buona idea è di fare dei giochi che possano aiutare i piccoli a superare la paura, per esempio inventare degli “antidoti” per vincere i presunti “fantasmi” che si celano nel buio, come incantesimi o spray, facendo capire che quei mostri in realtà non esistono, se non nella fantasia.
È importante anche non dire frasi che implicano pensieri negativi riguardo a mostri o fantasmi, come “Se non fai i compiti, arriverà il mostro”, perché aumenterebbero il disagio e la paura. Piuttosto, andrebbero utilizzati frasi positive come “Se fai i compiti, giocheremo insieme”.
Un punto fondamentale per aiutare i bambini con la nictofobia è ascoltarli, lasciarli esprimersi riguardo alle loro paure e aiutarli a osservare le loro emozioni facendo loro delle domande più specifiche.
Bisogna rassicurarli e spiegar loro che è normale avere delle paure, che non bisogna vergognarsi e che parlandone con i genitori si troverà una soluzione. Non bisogna mettere loro fretta, la paura scomparirà gradualmente.
Utili sono anche alcuni libri per bambini che affrontano questa tematica.
Nel frattempo, si possono mettere in atto alcune accortezze, come lasciare una piccola luce accesa la notte o ricordargli di dormire con il suo peluche preferito. Si può tentare l’esposizione camminando al buio per mano con il piccolo e spiegandogli che non ci sono pericoli o esorcizzando la paura con favole che trattano l’argomento del buio con ironia.
Atteggiamenti iperprotettivi, come creare l’abitudine di dormire con il bambino o permettergli sempre di dormire nel lettone sono da evitare.
È meglio rivolgersi a uno psicologo e chiedere aiuto se la paura del buio compromette le attività della vita quotidiana, ha un impatto negativo sul sonno, si associa a una forte ansia o panico o si mettono in atto strategie di evitamento.
La terapia cognitivo-comportamentale, insieme all’esposizione graduale e alle tecniche di rilassamento può aiutare a superare la nictofobia. Il percorso porta allo sviluppo di nuovi modelli di comportamento e all’apprendimento di come cambiare i pensieri disadattivi riguardo all’oscurità in positivi. Al contempo, è utile per contrastare tutti i sintomi associati alla fobia.
La nuova tecnologia della realtà virtuale si sta rilevando utile come integrazione degli approcci psicoterapeutici tradizionali, in quanto facilita i percorsi di cambiamento e migliora i sintomi sia cognitivi che fisici. Il principio è quello dell’esposizione e desensibilizzazione, però avviene attraverso mezzi virtuali. È stato dimostrato che la terapia di esposizione con realtà virtuale è efficace quanto le forme tradizionali di terapia di esposizione dal vivo per il trattamento delle fobie.
Con la VRT, o Virtual Reality Therapy, vengono simulate al computer situazioni difficili da realizzare nella realtà, che i pazienti posso vivere come esperienze realistiche, in modo che possano esporsi gradualmente alle loro paure in maniera sicura. Di recente è stato sviluppato un videogioco chiamato “Dark” che ha un gran potenziale terapeutico per la nictofobia: il giocatore svolgerebbe attività virtuali divertenti in un ambiente domestico sicuro ma oscuro. In questo modo, poco a poco, familiarizzerebbe con il buio e infine supererebbe la paura.

SERGIO  DEMURU

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L’ansia da prestazione è equiparata ad una dipendenza. Quali i rimedi

Per ansia da prestazione si intende un disturbo psicologico che rientra nella cosiddetta “ansia di stato” o, per meglio dire, un insieme di risposte fisiologiche, cognitive e comportamentali che tendono a presentarsi di fronte a una determinata situazione dove ci si aspetta di dover raggiungere un obiettivo che viene percepito come difficile o impossibile.
Chi soffre di ansia da prestazione si preoccupa di fallire un determinato compito ancora prima che sia iniziato. Non solo, le persone con questa tipologia di disturbo tendono a pensare che un singolo fallimento possa essere tradotto in umiliazione o rifiuto nella vita, nel lavoro o durante un rapporto sessuale. Alla base di questa situazione c’è il timore di non essere accettati o di non essere all’altezza delle aspettative. La conseguenza? Un calo dell’autostima e difficoltà nelle relazioni sociali.
Di ansia da prestazione non ne esiste una sola.
Ansia da prestazione relazionale, caratterizzata dalla continua ricerca di stima da parte degli altri; è collegata in modo molto stretto alla paura di non essere all’altezza di una situazione o in generale del giudizio degli altri.
Ansia da prestazione scolastica, che, insieme all’ansia da prestazione lavorativa o sportiva, è caratterizzata dalla paura di non essere in grado di svolgere un determinato compito (un esame o una gara, per esempio) o di non ottenere i risultati sperati nella scuola, sul lavoro o nelle prestazioni sportive.2 Si crea un legame profondo tra la paura di non essere apprezzati a causa dei risultati ottenuti e la propria autostima.Ansia da prestazione sessuale, tra i cui sintomi c’è la paura di deludere il partner nell’intimità. Nonostante quello che si potrebbe pensare, si tratta di un disturbo che colpisce non solo gli uomini, ma anche le donne, non c’è alcuna distinzione di genere.
L’ansia da prestazione è uno stato psicologico che può essere accompagnato anche da sintomi fisici, come:
1) aumento della frequenza cardiaca
2) tensione muscolare
3) senso di disagio
4) stress e irritabilità
5) insonnia
6) problemi digestivi
7) disturbi del desiderio sessuale
In particolare, nel caso dell’ansia da prestazione sessuale, possono essere presenti sintomi come il calo del desiderio o la mancanza di orgasmo.
Le persone che soffrono di ansia da prestazione a volte preferiscono evitare le situazioni che generano disagio, saltando incontri sociali, presentazioni di lavoro o, nei casi più gravi, attuando scelte di vita differenti rispetto a quelle che le renderebbero felici, pur di non dover affrontare questi stati di ansia.1
Evitare le situazioni che provocano ansia, tuttavia, può portare a vivere la propria vita “al ribasso”, senza mai ottenere ciò che davvero si desidera.
Quando ci si rende conto di soffrire di ansia da prestazione, quindi, la cosa giusta da fare è affrontarla.
SERGIO  DEMURU